Dopo
tre anni dall’ultima (trionfale) visita capitolina, i dM tornano
sul luogo del delitto. Il Tour of The Universe arriva infatti
ancora nell’Urbe, riconciliando definitivamente la banda con la
gens romana (e, aggiungiamo, del centro-sud del BelPaese),
ammesso che l’assenza da Roma nella lunga parentesi post
Devotional avesse avuto a che fare con le intemperanze di
qualche cialtrone presente al Palaeur piuttosto che con le note
difficoltà logistiche che spesso non portano i grandi tour al di
sotto della linea gotica. C’è un nuovo album, c’è la voglia di
esserci visto che (parole di Fletch, a cui non fa certo difetto
l’onestà intellettuale) potrebbe essere l’ultima volta. C’è
anche la curiosità che circonda Dave, ancora lui, stavolta alle
prese con un tumore che lo ha costretto a cancellare alcune date
ad inizio tour e che ha tenuto col fiato sospeso tutti quelli
che ancora hanno la musica di questi cinquantenni riposta in un
angolo del loro cuore. Il pubblico risponde all’appello
addirittura con maggiore entusiasmo del precedente Touring The
Angel, che già aveva realizzato un bel record, permettendo alla
band di fare coi suoi due concerti en plein air i due maggiori
incassi della prima metà del 2009 nonostante i prezzi tutt’altro
che proibitivi, mettendosi alle spalle “mostri” sacri nostrani
come Pausini e colleghe per l’Abruzzo e Tiziano Ferro. Un
sintomo di buona salute, benché l’album nuovo, come era già
accaduto col precedente, sia oggetto di valutazioni controverse
da parte di molti dei fan di vecchia data. Si entra con buon
anticipo, nonostante un cane lupo si ostini a cercare nelle mie
tasche droga della quale non v’è traccia, ed è la prima volta
che, con me, c’è anche mia figlia maggiore. La famigliola si
completa con la mia siùra e mia nipote, donando così all’evento
una certa dose di “empatia familistica”. Scritta così può
sembrare una cazzatina, e forse lo è. Ma per me era un’emozione
in più. Si entra, quindi, e ci si incontra con tante delle
persone che in questi anni ho conosciuto e mi hanno conosciuto.
L’atmosfera è di quelle rilassate, pacifiche. Folla eterogenea,
ragazzi sui vent’anni e cinquantenni incanutiti, qualche
immancabile curioso, metallari sfusi, famiglie (....) resiste
qualche dark e intravedo persino un paio di punk, parecchie
belle ragazze (come sempre) e fighettame sparpagliato. Fedele
fotografia di come questa band abbia fatto convivere sotto lo
stesso tetto persone dal background musicale così differente e,
in apparenza, così distanti tra loro. Miracoli che solo la
musica a volte riesce a fare. Il palco è massiccio, imponente
come da tradizione ma meno strutturato rispetto a quello del TTA.
Dominano i mega screen, una enorme palla sospesa e magica sulla
quale passano ulteriori immagini ed il video wall alle spalle
che trasmetterà le splendide proiezioni del fedelissimo Corbjn:
il dM che non suona. Gli M83 fanno il loro come apertura, se li
filano in pochi ed è un peccato. Le improvvisamente rigidissime
disposizioni delle forze dell’ordine comunicano al promoter che
il concerto deve finire alle 23:30, costringendo la band
all’inizio anticipato (alle 21) anziché alle 21:30 come
stampigliato sul biglietto. Molte centinaia di persone si
scapicolleranno sulle scale mentre l’intro scuote la struttura
dell’Olimpico e loro attaccano In Chains, altre ancora si
perderanno Wrong, proposta subito dopo. Ma la festa ha inizio e
Dave c’è, alla grande. Nonostante qualche imperfezione
nell’intonazione, ci mette poco a carburare, e con lui i
cinquantamila e passa dello stadio dell’Urbe. Nel parterre ci si
dimena, si urla, si canta, sempre osservando quanto di bello c’è
su quel palco. Ed è un sacco di roba. Il suono potentissimo è
ben calibrato, e le tracce del nuovo album si susseguono
alternate agli anthems classici sempre più a fuoco (Walking in
My Shoes, In Your Room e I Feel You su tutte). Le nuove: Peace,
si è già detto molte volte, dal vivo ha una marcia in più. La
sua battuta è accellerata, lo stadio diventa una bolgia anche se
alla fine non sono in molti a cantare. Le seminuove: Precious è
titolo perfetto per una canzone che emoziona sempre, anche se
nel 2006 la partecipazione del pubblico m’era parsa superiore.
Ma c’è la botta di Fly On The Windscreen, arrangiata da DIO. E
chi se ne frega se a ballare e cantare siamo solo noi
cinquantenni (e le mie gherls, che non si fermeranno mai...) col
brivido lungo la schiena e l’occhio lucido. La parentesi Goriana
concede a Dave la giusta pausa, e allaga lo stadio di spleen con
la sua interpretazione di Little Soul. Home è una delle più
belle canzoni degli ultimi vent’anni e gli applausi a scena
aperta sono sempre una bellezza per chi è su un palco. Martin se
li gode tutti, coro finale dell’Olimpico compreso. Si vira verso
il gran finale, e come nei fuochi d’artificio arrivano le bombe.
Quelle per le quali uno starebbe sempre in guerra, quelle che la
band non può fare a meno di eseguire perché sono canzoni che
oramai appartengono più alla gente che non a loro. Dopo essersi
sgolati (e meno male che words are very unecessary) con il più
fragoroso dei silenzi, centomila braccia di cinquantamila
braccianti a sventolare in aria nel campo di grano suggellano la
fine del set. Ma la fine è ancora lontana. Tornano e
spiattellano treperletre come Stripped/Master&Servants/Strangelove,
con una semplicità e una forza che ha del sovrannaturale.
Soprattutto Strangelove è stupefacente, tutto sembra tranne che
sia stata scritta decadi orsono. Peccato che la solerzia di un
funzionario di p.s. abbia privato la folla della proiezione
lesbo-oriented stilosa che Antonino aveva predisposto
(meravigliosa quella su Walking in My Shoes). Sembra la fine, ma
c’è ancora spazio per Personal Jesus a scardinare mascelle e a
convincere anche il più sospettoso su quel pulsante blues
futurista che nessun gruppo ha mai nemmeno avvicinato. Si chiude
con Dave e Martin a braccetto in I’m Waiting For The Night, e si
è felici che Dave stia lassù. Ancora in gamba, nonostante tutto.
Si esce, coi garretti a dura prova e la gola secca come il
tavoliere in luglio. Le considerazioni finali lasciano spazio
anche a cose “imperfette” come il mezzo casino di Martin nel
break di ETS, o la voce di Gahan potente ma sempre meno incline
a modulare verso il basso e più protesa alla forzatura, ai
controversi svolazzi di Gordeno sui tasti e al cambio di tono
del drumming di Policy Of Truth quando passa dal sintetico al
reale. Certo, mi dico, c’è molta maniera in ciò che fanno, e non
potrebbe essere altrimenti, ma questi signori spaccano ancora le
natichelle a tanti baldi giovini che appena scoperto di aver
scritto una buona canzone, e riempito di roboanti proclami i
media più trendy, spariscono nell’anonimato più buio dopo un
battito di ciglia (finte). Alla fine, tornando verso l’auto,
guardo mia figlia maggiore e mia nipote poco più che ventenne, e
non ho bisogno di chiedere loro se il concerto è piaciuto.
Bastava guardarle in faccia per capire che, dopo due ore e mezza
di tumulto, la gioia è ancora a portata di mano.
(Carlo Martelli)
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