In Chains
Wrong
Hole To Feed
Walking In My Shoes
It's No Good
A Question Of Time
Precious
World In My Eyes
Insight (sung by Martin)
Home
Miles Away / The Truth Is
Policy Of Truth
In Your Room
I Feel You
Enjoy The Silence
Never Let Me Down Again
Dressed In Black
Stripped
Behind The Wheel
Personal Jesus

Soulsavers

I Soulsavers sono un team di produzione inglese composto da Rich Machin e da Ian Glover. L’elettronica downtempo dei Soulsavers è caratterizzata dall’utilizzo di elementi rock, gospel, country e soul.
I loro primi lavori sono remix: tra il 2001 ed il 2002 remixano “Goodsouls” e “Poor Misguided Fool” degli Starsailor e “Satellites” dei Doves.
I loro primi inediti sono i singoli, “Beginning to see the dark” del 2002, e “Revolution Song”del 2003. A questi segue l’album di debutto, “Tough guys don’t dance”, che viene pubblicato in UK nell’ottobre del 2003. Il duo si avvale di Josh Haden per i vocals di “Love”, “Down so low” e di “Precious Time”.
La canzone Close vien anche pubblicata come “Close EP” nel novembre del 2004. Tra il 2004 ed il 2005 remixano inoltre "Four to the Floor" degli Starsailor e “Speak for me” dei The Mothers.
Il secondo disco viene pubblicato nel 2007 e prende il nome di “It’s not how you fall, it’s the way you land”. L’album vede la collaborazione del duo inglese con il cantante americano Mark Lanegan, che oltre ai vocals partecipa anche in fase compositiva su ben cinque canzoni. Diversi gli ospiti d’eccezione: da Jimi Goodwin dei Doves fino a Bonnie “Prince” Billy. Due i singoli tratti dal nuovo lavoro: “Revival” e “Kingdoms of Rain”, precedentemente pubblicata sul secondo disco solista di Lanegan, “Whiskey for the Holy Ghost” del 2004. Tra le canzoni che compongono l’album, si segnalano le covers di “Through my sails” di Neil Young, di “Spiritual” di Josh Haden e di “No expectations” dei Rolling Stones. Si segnala inoltre una strumentale nascosta alla fine del disco che è intitolata “End Title Theme”.
Il capitolo successivo della storia dei Soulsavers è “Broken”, che viene pubblicato nel 2009. Ancora una volta il duo si avvale della collaborazione di Lanegan come vocalist, a cui si aggiungono Bonnie “Prince” Billy, Jason Pierce degli Spiritualized, Mike Patton dei Faith no more e Gibby Haynes dei Butthole Surfers. Il singolo Sunrise, scritto da Lanegan e cantanto da Bonnie Billy precede la pubblicazione dell’album, pur non facendone parte. Il lato AA del singolo include una cover dei Palace Brothers, “You will miss me when I burn”, cantata da Lanegan e che compare invece sul disco.
Nella press release, Rich Machin dichiarò che Broken è il risultato che si è avuto a seguito dell’essere in tour, ed è questo il motivo della presenza di chitarre. Dall’album vengono estratti i singoli “Death Bells”, “Unbalanced pieces” ed “Some misunderstanding”.
Nel 2009 affiancano i Depeche Mode nella loro seconda leg europea del Tour of the universe 2009-2010, suonando anche a Bologna e Torino.

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Quando mi è stato chiesto di scrivere la recensione di questo concerto sono stata colta da un “leggerissimo” attacco di panico. Tendenzialmente la mia memoria non è strepitosamente efficiente, non sono il tipo di persona che ricorda i dettagli precisi delle esperienze occorse… conservo, piuttosto, vaghe sensazioni, flash e – spesso, chissà perché – odori.
Così, per aiutare il recupero dei miei dati mnemonici dai meandri in cui si sono cacciati per fare spazio ad altro, sono andata a ripescare il mio commento scritto a caldo, in data 27 novembre 2009, appena tornata dalla missione depechiana nella città cioccolatosa. Eccolo:
In sintesi:
1) Vorrei essere stanca e imbolsita come i Depeche Mode.
2) Nonostante la mia lombalgia quasi cronica, non ho potuto fare a meno di dimenarmi per due ore come un'ossessa (con elevato rischio di "strappo-mutande" per annesse contorsioni causa assoli chitarristici di Martino da urlo)
3) Mi sono divertita 'na freca, grazie anche al vicinato molto in sintonia, quanto a vispaggine, con la sottoscritta.
4) Me so' spolmonata ed è stato un miracolo che l'ugola non sia fuoriuscita dalla sua sede naturale.
Nel caso non fosse chiaro: il concerto mi è piaciuto MOLTISSIMO.on
Certo, quel “moltissimo” è senz’altro frutto dell’entusiasmo adrenalinico post-evento, ma a ripensarci a distanza di quasi quattro anni non me la sento di fargli una tara, no… Ci ho pensato, ripensato e quel “moltissimo” lo confermo. Sì, merita di essere confermato. E’ vero: era solo il mio secondo concerto dei DM, alla mia veneranda età (imperdonabile, lo so), sicuramente non ho uno storico con il quale fare confronti, ma quel “moltissimo” si è sedimentato nella mia memoria e lì è rimasto per tutto questo tempo. Amen.
E veniamo finalmente alla cronaca dell’evento.
Dopo aver apprezzato la presenza estetica del Palaisozaki, struttura ospitante, mi fiondo all’interno insieme al mio accompagnatore (è anche il suo compleanno, poveraccio) per prendere posto nel settore che ci compete. Provo sempre una certa invidia per i coraggiosi che hanno osato il parterre. Mi sembra di essere troppo lontana dal palco, ma ricordando quanto laterale fossi a San Siro, non riuscendo praticamente a vedere Martin per tutta la serata, mi siedo zitta e buona aspettando le prime note di “In Chains”.
Che puntualmente arrivano, dopo un’attesa che mi sembra lunghissima, insieme al gigantesco boato che sale dalla folla. Inchino di Dave e si parte. Il tempo di qualche battuta e nella mia zona siamo tutti in piedi. Il maturo papà seduto un paio di file dietro di noi non si alzerà per tutto il concerto ma parteciperà, evidentemente entusiasta, battendo le mani senza sosta fino alla fine. Vabbè…
Dave sembra ancora relativamente in forma, bello gattoso come si conviene, Martin è sempre deliziosamente glitterato, Fletch al momento non è pervenuto ma lo apprezzerò in seguito (). L’apertura fila via tranquilla, ci stiamo riscaldando in vista di ciò che seguirà, servirà molta energia, la serata è ancora lunga. Ecchelollà, Dave si toglie la giacca e… “WROOOOOONG!”. Pezzone, c’è poco da dire, siamo tutti trascinati. Tosta da cantare, percepisco tutto lo sforzo gahaniano, Martin sorregge l’impalcatura con le sue incursioni vocali, Dave si avventura per la prima volta nella zona calda del parterre con postura da guerriglia… “ssshhhhh”…
Percussioni tribali, arriva “Hole to feed”… Aizzati da Dave, facciamo la nostra parte nella sezione ritmica, passerella veloce, come veloce scivola via il brano… ormai siamo nella zona calda della scaletta.
Premessa: considero “Walking in my shoes” uno dei brani più belli, intensi e veri mai scritti da Martin Gore. Non sono in grado di giudicarla con obiettività. Sono a bocca aperta, concentratissima, non riesco ad unirmi al canto generale. A stemperare un po’ la mia precaria condizione emotiva, l’occhio che cade sulla postazione di Fletch. Il quale mi ruba un sorriso nel momento in cui metto a fuoco la sua totale mancanza di coordinazione, tempo e fluidità nei movimenti mentre tenta di accennare qualche mossa danzereccia. Il paragone con Dave è simpaticamente impietoso, ma non si può non apprezzare il suo impavido tentativo di “partecipare alla festa”.
“It’s no good”… eggià, adesso sono in due ad essere in gilet sul palco. Schitarrate impertinenti, la voce di Dave arranca un po’, ma il momento à la elvis-the-pelvis è di tutto rispetto. E in effetti bisogna fare affidamento sulla parte inferiore del corpo per essere pronti a saltare: è già il momento di “Question of time”. Sì, lo so, la fanno sempre, uffa basta non se ne può più, ma è un turbo, c’è poco da fare… Solito repertorio roteante, “raccolta pacchi”, ecc. ecc. ma Dave ci doma meglio di Darix Togni, nun c’è gnente da fa’.
Faccio fatica a ricompormi per “Precious”, canzone che nella più energetica versione live preferisco, meglio se con tanto di pas-de-deux tra Dave e Martin come in questo caso.
Ed eccoci finalmente al primo dei momenti ad alto tasso ormonale… Manco a dirlo, “World in my eyes”… Perché diciamolo, non è Dave che sculetta, ancheggia, piroetta e manda baci il succo della questione (bèh, non solo). Ma è quel cacchio di testo, che quando diventa una promessa mantenuta… ok, ci siamo capiti. L’illuminazione della passerella dalla mia postazione non è il massimo, rosicamento feroce nei confronti di chi è a pochi centimetri dalla visione.
Bene, siamo finalmente in zona Martintenderly. Lo abbracciamo tutti virtualmente mentre intona “Insight”. Banale dirlo, ma i brividi mi percorrono dalla punta dell’alluce alla cima dei capelli. Sempre il solito discorso, quest’uomo riesce a toccarti ogni anfratto emotivo… Siamo rapiti e partiamo spontaneamente con il nostro “You've got to give love”, senza attendere il segnale convenuto, accompagnandolo dolcemente fino alla fine del brano. Neanche il tempo di riprendersi e partono le prime note di “Home”. Ed entriamo tutti in quella casa. La poesia si taglia col coltello ora, applausi a scena aperta, cori ovunque, ed eccolo – finalmente – avventurarsi anche lui sulla passerella per dirigere il nostro ohohohohohohoh-oh ohohohohohohoh-ah. Sembra divertito, contento, agita le braccia su e giù con quel suo modo goffamente ma teneramente pulcinesco. E si congeda con un educato “Thank you”… Che tu sia benedetto ragazzo… Il nostro sing-along prosegue fino al ritorno sul palco di Dave il quale, dopo averci di nuovo ringraziati e gratificati con un tonante “Mr. Martin L. Gooooore!”, attacca con “Miles Away/The Truth is”. La canzone, lo confesso, non mi fa impazzire. Mi concentro perciò su Andy e me la spasso per qualche minuto. Sì, perché non si placa neanche durante “The Policy of Truth”, anzi. Mentre Dave volteggia con l’asta del microfono, lui saltella, agita le mani ed intrattiene un’amabile relazione con il pubblico assiepato alla sua sinistra. Uno spettacolo nello spettacolo.
“In your room” e “I feel you”: sequenza micidiale. Non me ne ero resa conto a Milano, qui è tutta un’altra storia. La chitarra di Martin che si fa pianto nella prima per poi randellarti nella seconda. Mi passano per la testa idee irriferibili, ‘sta versione è ‘na botta de cattiveria, Dave è veramente ai limiti vocalmente, ma non si risparmia e ci regala uno dei momenti migliori di tutta la serata. Questa esaltazione giunge a proposito, perché il successivo uno-due è di quelli da ko.
Sì perché si prosegue con la più classica delle canzoni simbolo depechiane, il paradigma basildoniano per eccellenza. Intro inconfondibile ed ecco “Enjoy the silence”. Chiaramente, coro totale globale, non possiamo esimerci. Dave ci incalza, ma potrebbe farne a meno, abbiamo il pilota automatico inserito. Maledico nuovamente le luci sulla passerella che non mi fanno apprezzare appieno la fisica armonia dell’universo in azione (che intanto si pure è slacciata il gilet). “Ladies and Gentlemen, Boys and Girls, Mr. Martin L. Gooooore” a sottolineare la strepitosa tirata chitarristico-danzereccia del Biondo.
Ops! Il riff è inconfondibile. Questi sono i MIEI Depeche Mode. Questa è la MIA canzone. L’attacco più esaltante di tutta la discografia che ho in testa… “I’m taking a ride with my best friend”… La dimensione epica di “Never let me down again” mi fa scoppiare la cassa toracica ogni volta, è come se il mio costato non riuscisse più a contenere cuore e polmoni. Vedere Dave tra le nostre spighe è bellezza pura. Ma il campo di grano è il minimo sindacale, con roba del genere dovrebbero farsi le rivoluzioni…
Siamo quasi al termine. Tiriamo tutti il fiato prima dei bis.
Di nuovo Martin sul palco, questa volta solo con Gordeno. “Dressed in black” apre la sequenza di encore. La mia mente vagabonda senza fine mentre osservo che l’incedere barcollantemente timido del nostro rende bene il senso delle testo, sembra di immaginarselo proprio un attimo prima della caduta, della resa senza appello alla dea in nero.
Ed è perfettamente logico ritrovarsi, un attimo dopo, “Stripped”. Forse fuori, chi lo sa, ma soprattutto dentro. Ancora un “Mr. Goooore” all’indirizzo di Martin e si ricomincia. Devo dire che apprezzo: “Black Celebration” è uno dei miei dischi preferiti dei Depeche. L’ennesimo “Ohoh-ohoh-ohoh-ohoh” si leva alto, “Come with me”… Sì, Dave, non ci facciamo certo pregare. Sei stanco? Ok, guidiamo noi… “Behind the wheel”, diabolica canzone senza refrain... salivazione azzerata, meno male che Dave si contiene. Fletch, invece, si scatena…
E’ arrivato il momento delle benedizione finale del nostro “Personal Jesus”. Incedere lento e poi… BUUUM! E comincia a tremare tutto… A Milano m’era preso un colpo, ma qui sono arrivata preparata. Martin saltella imbracciando la sua Gretsch come un quasi navigato rocker, Dave fa le sue ultime incursioni tra i più assatanati (che hanno evidentemente bisogno di una benedizione extra) facendo volteggiare nell’aria un turibolo immaginario, Fletch si distribuisce equamente urbi (parterre) et orbi (gradinate). Cerco di imprimermi nelle pupille e nelle orecchie questi ultimi istanti. Non so quando ci sarà un altro quando e un altro dove.
Baci, abbracci, arrivederci e grazie. “We’ll see you next time”…

                                                                             Elisabetta Bonuccelli


   
   
   
 
 
 
   
 
 
   
 
   
 
 
   

 

 

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