Quando mi è stato chiesto di scrivere la recensione di questo
concerto sono stata colta da un “leggerissimo” attacco di
panico. Tendenzialmente la mia memoria non è strepitosamente
efficiente, non sono il tipo di persona che ricorda i dettagli
precisi delle esperienze occorse… conservo, piuttosto, vaghe
sensazioni, flash e – spesso, chissà perché – odori.
Così, per aiutare il recupero dei miei dati mnemonici dai
meandri in cui si sono cacciati per fare spazio ad altro, sono
andata a ripescare il mio commento scritto a caldo, in data 27
novembre 2009, appena tornata dalla missione depechiana nella
città cioccolatosa. Eccolo:
In sintesi:
1) Vorrei essere stanca e imbolsita come i Depeche Mode.
2) Nonostante la mia lombalgia quasi cronica, non ho potuto fare
a meno di dimenarmi per due ore come un'ossessa (con elevato
rischio di "strappo-mutande" per annesse contorsioni causa
assoli chitarristici di Martino da urlo)
3) Mi sono divertita 'na freca, grazie anche al vicinato molto
in sintonia, quanto a vispaggine, con la sottoscritta.
4) Me so' spolmonata ed è stato un miracolo che l'ugola non sia
fuoriuscita dalla sua sede naturale.
Nel caso non fosse chiaro: il concerto mi è piaciuto
MOLTISSIMO.on
Certo, quel “moltissimo” è senz’altro frutto dell’entusiasmo
adrenalinico post-evento, ma a ripensarci a distanza di quasi
quattro anni non me la sento di fargli una tara, no… Ci ho
pensato, ripensato e quel “moltissimo” lo confermo. Sì, merita
di essere confermato. E’ vero: era solo il mio secondo concerto
dei DM, alla mia veneranda età (imperdonabile, lo so),
sicuramente non ho uno storico con il quale fare confronti, ma
quel “moltissimo” si è sedimentato nella mia memoria e lì è
rimasto per tutto questo tempo. Amen.
E veniamo finalmente alla cronaca dell’evento.
Dopo aver apprezzato la presenza estetica del Palaisozaki,
struttura ospitante, mi fiondo all’interno insieme al mio
accompagnatore (è anche il suo compleanno, poveraccio) per
prendere posto nel settore che ci compete. Provo sempre una
certa invidia per i coraggiosi che hanno osato il parterre. Mi
sembra di essere troppo lontana dal palco, ma ricordando quanto
laterale fossi a San Siro, non riuscendo praticamente a vedere
Martin per tutta la serata, mi siedo zitta e buona aspettando le
prime note di “In Chains”.
Che puntualmente arrivano, dopo un’attesa che mi sembra
lunghissima, insieme al gigantesco boato che sale dalla folla.
Inchino di Dave e si parte. Il tempo di qualche battuta e nella
mia zona siamo tutti in piedi. Il maturo papà seduto un paio di
file dietro di noi non si alzerà per tutto il concerto ma
parteciperà, evidentemente entusiasta, battendo le mani senza
sosta fino alla fine. Vabbè…
Dave sembra ancora relativamente in forma, bello gattoso come si
conviene, Martin è sempre deliziosamente glitterato, Fletch al
momento non è pervenuto ma lo apprezzerò in seguito ().
L’apertura fila via tranquilla, ci stiamo riscaldando in vista
di ciò che seguirà, servirà molta energia, la serata è ancora
lunga. Ecchelollà, Dave si toglie la giacca e… “WROOOOOONG!”.
Pezzone, c’è poco da dire, siamo tutti trascinati. Tosta da
cantare, percepisco tutto lo sforzo gahaniano, Martin sorregge
l’impalcatura con le sue incursioni vocali, Dave si avventura
per la prima volta nella zona calda del parterre con postura da
guerriglia… “ssshhhhh”…
Percussioni tribali, arriva “Hole to feed”… Aizzati da Dave,
facciamo la nostra parte nella sezione ritmica, passerella
veloce, come veloce scivola via il brano… ormai siamo nella zona
calda della scaletta.
Premessa: considero “Walking in my shoes” uno dei brani più
belli, intensi e veri mai scritti da Martin Gore. Non sono in
grado di giudicarla con obiettività. Sono a bocca aperta,
concentratissima, non riesco ad unirmi al canto generale. A
stemperare un po’ la mia precaria condizione emotiva, l’occhio
che cade sulla postazione di Fletch. Il quale mi ruba un sorriso
nel momento in cui metto a fuoco la sua totale mancanza di
coordinazione, tempo e fluidità nei movimenti mentre tenta di
accennare qualche mossa danzereccia. Il paragone con Dave è
simpaticamente impietoso, ma non si può non apprezzare il suo
impavido tentativo di “partecipare alla festa”.
“It’s no good”… eggià, adesso sono in due ad essere in gilet sul
palco. Schitarrate impertinenti, la voce di Dave arranca un po’,
ma il momento à la elvis-the-pelvis è di tutto rispetto. E in
effetti bisogna fare affidamento sulla parte inferiore del corpo
per essere pronti a saltare: è già il momento di “Question of
time”. Sì, lo so, la fanno sempre, uffa basta non se ne può più,
ma è un turbo, c’è poco da fare… Solito repertorio roteante,
“raccolta pacchi”, ecc. ecc. ma Dave ci doma meglio di Darix
Togni, nun c’è gnente da fa’.
Faccio fatica a ricompormi per “Precious”, canzone che nella più
energetica versione live preferisco, meglio se con tanto di
pas-de-deux tra Dave e Martin come in questo caso.
Ed eccoci finalmente al primo dei momenti ad alto tasso
ormonale… Manco a dirlo, “World in my eyes”… Perché diciamolo,
non è Dave che sculetta, ancheggia, piroetta e manda baci il
succo della questione (bèh, non solo). Ma è quel cacchio di
testo, che quando diventa una promessa mantenuta… ok, ci siamo
capiti. L’illuminazione della passerella dalla mia postazione
non è il massimo, rosicamento feroce nei confronti di chi è a
pochi centimetri dalla visione.
Bene, siamo finalmente in zona Martintenderly. Lo abbracciamo
tutti virtualmente mentre intona “Insight”. Banale dirlo, ma i
brividi mi percorrono dalla punta dell’alluce alla cima dei
capelli. Sempre il solito discorso, quest’uomo riesce a toccarti
ogni anfratto emotivo… Siamo rapiti e partiamo spontaneamente
con il nostro “You've got to give love”, senza attendere il
segnale convenuto, accompagnandolo dolcemente fino alla fine del
brano. Neanche il tempo di riprendersi e partono le prime note
di “Home”. Ed entriamo tutti in quella casa. La poesia si taglia
col coltello ora, applausi a scena aperta, cori ovunque, ed
eccolo – finalmente – avventurarsi anche lui sulla passerella
per dirigere il nostro ohohohohohohoh-oh ohohohohohohoh-ah.
Sembra divertito, contento, agita le braccia su e giù con quel
suo modo goffamente ma teneramente pulcinesco. E si congeda con
un educato “Thank you”… Che tu sia benedetto ragazzo… Il nostro
sing-along prosegue fino al ritorno sul palco di Dave il quale,
dopo averci di nuovo ringraziati e gratificati con un tonante
“Mr. Martin L. Gooooore!”, attacca con “Miles Away/The Truth is”.
La canzone, lo confesso, non mi fa impazzire. Mi concentro
perciò su Andy e me la spasso per qualche minuto. Sì, perché non
si placa neanche durante “The Policy of Truth”, anzi. Mentre
Dave volteggia con l’asta del microfono, lui saltella, agita le
mani ed intrattiene un’amabile relazione con il pubblico
assiepato alla sua sinistra. Uno spettacolo nello spettacolo.
“In your room” e “I feel you”: sequenza micidiale. Non me ne ero
resa conto a Milano, qui è tutta un’altra storia. La chitarra di
Martin che si fa pianto nella prima per poi randellarti nella
seconda. Mi passano per la testa idee irriferibili, ‘sta
versione è ‘na botta de cattiveria, Dave è veramente ai limiti
vocalmente, ma non si risparmia e ci regala uno dei momenti
migliori di tutta la serata. Questa esaltazione giunge a
proposito, perché il successivo uno-due è di quelli da ko.
Sì perché si prosegue con la più classica delle canzoni simbolo
depechiane, il paradigma basildoniano per eccellenza. Intro
inconfondibile ed ecco “Enjoy the silence”. Chiaramente, coro
totale globale, non possiamo esimerci. Dave ci incalza, ma
potrebbe farne a meno, abbiamo il pilota automatico inserito.
Maledico nuovamente le luci sulla passerella che non mi fanno
apprezzare appieno la fisica armonia dell’universo in azione
(che intanto si pure è slacciata il gilet). “Ladies and
Gentlemen, Boys and Girls, Mr. Martin L. Gooooore” a
sottolineare la strepitosa tirata chitarristico-danzereccia del
Biondo.
Ops! Il riff è inconfondibile. Questi sono i MIEI Depeche Mode.
Questa è la MIA canzone. L’attacco più esaltante di tutta la
discografia che ho in testa… “I’m taking a ride with my best
friend”… La dimensione epica di “Never let me down again” mi fa
scoppiare la cassa toracica ogni volta, è come se il mio costato
non riuscisse più a contenere cuore e polmoni. Vedere Dave tra
le nostre spighe è bellezza pura. Ma il campo di grano è il
minimo sindacale, con roba del genere dovrebbero farsi le
rivoluzioni…
Siamo quasi al termine. Tiriamo tutti il fiato prima dei bis.
Di nuovo Martin sul palco, questa volta solo con Gordeno.
“Dressed in black” apre la sequenza di encore. La mia mente
vagabonda senza fine mentre osservo che l’incedere
barcollantemente timido del nostro rende bene il senso delle
testo, sembra di immaginarselo proprio un attimo prima della
caduta, della resa senza appello alla dea in nero.
Ed è perfettamente logico ritrovarsi, un attimo dopo, “Stripped”.
Forse fuori, chi lo sa, ma soprattutto dentro. Ancora un “Mr.
Goooore” all’indirizzo di Martin e si ricomincia. Devo dire che
apprezzo: “Black Celebration” è uno dei miei dischi preferiti
dei Depeche. L’ennesimo “Ohoh-ohoh-ohoh-ohoh” si leva alto,
“Come with me”… Sì, Dave, non ci facciamo certo pregare. Sei
stanco? Ok, guidiamo noi… “Behind the wheel”, diabolica canzone
senza refrain... salivazione azzerata, meno male che Dave si
contiene. Fletch, invece, si scatena…
E’ arrivato il momento delle benedizione finale del nostro
“Personal Jesus”. Incedere lento e poi… BUUUM! E comincia a
tremare tutto… A Milano m’era preso un colpo, ma qui sono
arrivata preparata. Martin saltella imbracciando la sua Gretsch
come un quasi navigato rocker, Dave fa le sue ultime incursioni
tra i più assatanati (che hanno evidentemente bisogno di una
benedizione extra) facendo volteggiare nell’aria un turibolo
immaginario, Fletch si distribuisce equamente urbi (parterre) et
orbi (gradinate). Cerco di imprimermi nelle pupille e nelle
orecchie questi ultimi istanti. Non so quando ci sarà un altro
quando e un altro dove.
Baci, abbracci, arrivederci e grazie. “We’ll see you next time”…
Elisabetta Bonuccelli
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